Giovanna Mezzogiorno
testo critico
A cinque anni è già sul set, a trovare il padre Vittorio e a familiarizzare con il cinema, fra la disciplina dell’attore e l’operosità dei tecnici che si dedicano al set per creare meraviglia. Due opposti che Giovanna Mezzogiorno farà suoi in una carriera segnata tanto dalla serietà del suo approccio al lavoro, quanto dalla capacità di gettarsi a capofitto nelle storie, in cerca delle emozioni da vivere e restituire allo spettatore. Poche attrici come lei sapranno infatti incarnare determinazione e fragilità, dolore e consapevolezza della realtà, guardata attraverso quegli occhi in grado di contenere mondi.
Per imparare, la prima grande scuola è il teatro, a metà degli anni Novanta a Parigi con Peter Brook, che già aveva lavorato con il padre (Vittorio era stato infatti nel suo The Mahabharata, sia la versione teatrale che l’imponente trasposizione cinematografica). Con l’approdo al grande schermo, la sua figura solletica pulsioni fiabesche per Sergio Rubini, che con Il viaggio della sposa evoca epoche lontane, riscrive la geografia e immagina nuovi rapporti sociali, tra uno stalliere di umili origini e una nobildonna. È lei, Giovanna, la sposa svelata dal vento che fa volare il velo dal suo viso e apre nuove prospettive alla vita e all’avventura. Che dietro quel volto angelicato si nascondano però emozioni forti lo capisce subito Michele Placido che fin dal titolo, Del perduto amore, capisce come solo lei può essere Liliana: ne può incarnare la dedizione alla causa, la veemenza dell’impegno politico, la passione per prospettive differenti del mondo, e naturalmente il grande insegnamento e l’amore di e per la vita del protagonista Gerardo. Sicuramente uno dei personaggi più belli del cinema italiano degli ultimi trent’anni, la rivelazione di un’intensità attoriale e di un’urgenza realistica che non a caso le frutta vari premi (Nastro d’Argento, Ciak d’Oro, Premio Pasinetti a Venezia).
Da lì, la via è tracciata verso impegni sempre più complessi e in grado di governare l’impetuosità dei sentimenti con la capacità di farsi custode di narrazioni e realtà: con La finestra di fronte, Ferzan Ozpetek la rende testimone di una vicenda sepolta nel tempo, quasi un racconto di fantasmi, con le sue verità celate e le storie d’amore proibite. Gabriele Muccino con L’ultimo bacio ne fa il perno del complesso dedalo di relazioni e sentimenti che legano i personaggi. Cristina Comencini con La bestia nel cuore si affida a lei per affrontare e raccontare il dolore di un tragico passato di violenze familiari (per il ruolo ottiene la Coppa Volpi a Venezia). A queste parti Giovanna Mezzogiorno si offre con la dedizione di chi crede che la problematicità del mondo sia una cartina di tornasole ideale per svelare la complessità della vita, in modo serio, mai banale, imponendosi una disponibilità a non tirarsi indietro di fronte alle sfide più difficili. In Vincere di Marco Bellocchio, ad esempio, è Ida Dalser, amante ripudiata di Mussolini, che finisce in manicomio. Qui lo stile puramente attoriale valorizza ogni micro espressione e la tecnica sostiene le lunghe sequenze e le tante pagine di copione da mandare a memoria, raggiungendo una resa autentica e capace di scoperchiare la Storia e il privato di un’anima coraggiosa e sottoposta a tormento.
La sua figura si fa in questo modo garante di una verità del cinema che si riverbera nei ritorni con gli autori che l’hanno già saputa valorizzare, come l’Ozpetek di Napoli velata o la Cristina Comencini di Tornare. Lo stesso vale per i ruoli che sostiene per altri autori significativi del cinema italiano, dal Gianni Amelio de La tenerezza all’Ivano De Matteo de I nostri ragazzi al Daniele Luchetti di Lacci, in cui resta costante il tema della complessità dei sentimenti e dello svelamento delle difficoltà del reale, in ambito tanto sociale quanto familiare.
Gli anni più recenti segnano una diversificazione delle scelte: doppia un ruolo disneyano (il pitone Kaa del Libro della giungla di Jon Favreau, in originale affidato a Scarlett Johansson) e debutta alla regia con il corto Unfitting dove porta allo scoperto, con sguardo satirico e partecipe spirito di denuncia, l’ossessione della bellezza e degli impossibili canoni di perfezione fisica nella società e nel cinema contemporanei, in efficace contrappunto alla spensieratezza dell’infanzia ancora libera da simili ansie. Recentissima, infine, l’uscita del suo primo libro, Ti racconto il mio cinema, con cui illustra il mestiere e l’arte ai più giovani. Un testo dichiaratamente redatto con l’entusiasmo di chi è dedita al cinema da sempre e non ne ha perso l’entusiasmo iniziale, mentre in copertina ritroviamo i suoi occhi che inquadrano il mondo, ancora una volta molto più che una dichiarazione d’intenti.
Davide Di Giorgio